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Il giornalista come mediatore culturale

The Journalist as a Cultural Mediator

Il giornalista è – a tutti gli effetti - un mediatore culturale. Infatti, si trova a dover mediare, per l'appunto, tra un mittente dell'informazione (chi crea la notizia, in qualsiasi modo e in qualsiasi forma) e un destinatario (che di norma è individuabile nell'idealizzazione di un utente del pubblico di riferimento del mass media grazie al quale viene diffusa la notizia da lui stesso elaborata). Lo testimonia ciò anche il ruolo che hanno i mezzi di informazione di massa nella creazione delle politiche pubbliche. E, per estensione, lo conferma anche il peso che i mass media hanno nella percezione all'interno delle comunità – sia maggioritarie, sia minoritarie – delle tematiche legate alla migrazione.

Il lavoro di inclusione

Nel giornalismo legato al mondo delle migrazioni è necessario partire da un assioma: l'informazione è alla base dell'inclusione sociale. C'è una vera e propria responsabilità sociale da parte dell'operatore dell'informazione che può, e deve, fungere da mediatore interculturale e da attore sociale con un ruolo principale: sostenere reti di relazioni, ampliare la possibilità e la libertà di azione dei migranti. Tutto ciò è possibile grazie alla creazione di un flusso di informazioni che possa essere da una parte accessibile al pubblico di riferimento (dunque, con mezzi di comunicazione che siano da loro usati spesso e con un linguaggio a loro comprensibile) e dall'altra che possa essere di loro utilità (con notizie che siano rispondenti alle loro esigenze informative). E' però necessario anche che l'operatore dell'informazione possa rispondere a chi, invece, sia nativo del territorio stesso di diffusione del media e che dunque possa interagire con lui per evitare la nascita di pregiudizi e stereotipi. Ad avere un particolare ruolo nella comunicazione di questo genere sono i cittadini di seconda e terza generazione che devono essere presi in considerazione soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo di politiche di rete. Ci sono profonde differenze nel mondo delle migrazioni. E l'Italia ne è la testimonianza. Da terra di emigrazione è diventata terra di immigrazione, e ora luogo dove i migranti di seconda e terza generazione crescono, si confrontano, creano nuove reti sociali. Ma tutte le realtà testimoniano come sia necessaria una profonda politica di integrazione che deve usare comunque la comunicazione come veicolo. Ciò che deve fare il giornalista mediatore è far avvicinare gli utenti alla realtà dei fatti. Un lavoro, questo, che comunque non può far considerare il giornalista come il nume tutelare della verità – si può raggiungere la verità sostanziale dei fatti, non la verità in sé –. E per questo, più che in ogni altro settore, nell'informazione è opportuno tendere alla completezza e valutare, prima dell'invio dell'informazione, quali possano essere gli effetti della sua comunicazione. Ciò non vuol dire sviluppare un'autocensura, ma essere coscienti del ruolo di responsabilità sociale che si riveste.

I vantaggi di una interazione profonda

I mass media – e, quindi, gli operatori dell'informazione – sono a pieno titolo gli attori che forse più di altri contribuiscono a realizzare l'opinione pubblica e, dunque, a incidere sulle scelte delle politiche collettive. Nel loro lavoro quotidiano, si trovano a dover interpretare la realtà e i suoi valori, il rapporto tra morale, etica e azioni umane, e propongono la creazione di reti sociali, di interpretazione dei fatti più diversi, di individuazione di soluzioni ai problemi che toccano le comunità. Il loro rapporto con il pubblico non può e non deve essere passivo ma attivo: ecco perché, soprattutto con il web, si viene a creare una forte interazione. Importante è, inoltre, il rapporto di fiducia tra giornalisti e utenti dell'informazione: la loro relazione è essenziale per mantenere saldi i principi di un paese democratico. Un riferimento da fare - doveroso - è all'articolo 2 della legge 63 del 1963 (norma che in Italia definisce la professione del giornalista) e che per l'appunto valuta nel suo testo l'interazione fiduciaria tra mittenti e destinatari del processo comunicativo. Inoltre, è da sottolineare come ci siano alcuni elementi legati alla cittadinanza che sono alla base del vivere civile. All'interno dell'approccio culturale è da considerare l'informazione che, in molti casi, è classificabile come un agente orientatore. E' una risposta concreta al disorientamento che soprattutto un migrante ha quando si allontana dalla terra d'origine. L'informazione - e la formazione che poi ne viene associata - altro non fa che sviluppare una maggior conoscenza sia della comunità che include sia del patrimonio culturale del migrante. Tutto ciò è alla base di una sana politica integrativa e di sviluppo.

Comunicare la migrazione non è qualcosa di uguale per tutti

Avviare una politica comunicativa a sostegno delle politiche di migrazione non è simile dovunque. E, dunque, un giornalista deve confrontarsi anche su questo. Prendiamo ad esempio le fiction Usa nate per sostenere le politiche di integrazione negli Stati Uniti d'America tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. E' ovvio che, trasposte in Italia, queste non hanno avuto lo stesso senso: per un italiano la fiction del ragazzo nero viene 'decontestualizzata' rispetto al clima che si respirava negli Usa in quel periodo. In Italia era una storia ‘curiosa’ perché nuova. Negli Usa aveva un significato ben diverso. La percezione di problemi che non sono più familiari e non rientrano più nell'ordine tradizionale delle cose, quando non spinge verso l'apatia, l'indifferenza, la chiusura nel privato, porta all'angoscia, al risentimento collettivo, ad un sentimento misto di impotenza e bisogno di fare qualcosa, che si esprime come un intreccio e una ambivalenza di comportamenti difensivi e aggressivi. La radice 'culturale' dello sciovinismo e dei pregiudizi razziali sta nell'uso rovesciato delle categorie di appartenenza e di identità. E' allora che l'altro, lo straniero, il nuovo arrivato, vengono identificati come fonte di disagio e investiti di colpa quali responsabili simbolici del sentimento di ‘privazione relativa’ che si diffonde tra i soggetti di una comunità chiusa e statica, i quali vivono il cambiamento e il nuovo come minaccia.

La pratica di mediazione

Il giornalista che si occupa di migrazione si trova a dover fare il mediatore sotto molteplici aspetti. Se si occupa della cosiddetta cronaca politica e bianca (quella legata al mondo sociale e istituzionale) è mediatore nei confronti degli enti pubblici e della società in genere. Dunque, deve conoscere bene i percorsi istituzionali e sociali in merito alla migrazione, saperli interpretare autonomamente e valutarli di conseguenza. Spesso il rischio è quello di “ingerenza” della cronaca nera nella cronaca bianca e dunque nella modifica delle politiche pubbliche a causa di una sovraesposizione mediatica dei fatti di nera legati alle politiche migratorie. Dunque, una errata esposizione di rapine, omicidi, furti e quant'altro, può avere una risposta – più o meno immediata – da parte della politica che percepisce le ansie, i timori, dei cittadini-utenti dei media e cerca di correre ai ripari per evitare una perdita nei consensi. Ecco perché uno dei compiti più ostici per il cronista-mediatore è occuparsi della cronaca nera e giudiziaria. Qui il rischio è, come detto, di ingenerare preoccupazioni inutili e, in seguito, fare in modo che non ci sia una corretta esposizione dei fatti. Non è tanto il fatto di nera in sé ad essere a rischio (a generare quel panico che genera insicurezza), quanto invece le notizie che in gergo vengono definite “di appoggio”: l'intervista ai parenti della vittima, ai vicini di casa, alla comunità, possono far riportare informazioni dettate dalle emozioni, dalla “pancia” di chi è rimasto colpito dal fatto. E, dunque, può distorcere la tendenza alla verità sostanziale dei fatti, come prevista dall'articolo 2 della legge 69/63 che in Italia è la norma che regolamenta la professione giornalistica. Nel caso in cui il giornalista si occupi di cronaca estera, invece, spesso il cronista si trova a dover avere a che fare con gli aspetti di migrazione “all'origine” e dunque a dover analizzare i fatti ben prima che avvengano. In sostanza, il suo ruolo è – molto prima dei suoi colleghi che restano in Italia, tanto per fare un esempio – interpretare i fatti sociali delle migrazioni nelle comunità di emigrazione.

La preparazione del giornalista di migrazione

Secondo quanto illustrato finora, la figura del giornalista di migrazione deve essere una professionalità che, per quanto riguarda le tematiche in oggetto, deve essere profondamente preparato. In quanto soggetto terzo, infatti, deve raccontare la realtà dei fatti conoscendo sia il contesto nel corso del quale i fatti si sono svolti, sia le cause che hanno portato a questo (se il fatto di cronaca lo consente), ma anche le conseguenze che porta l'esposizione mediatica per evitare che si possano ingenerare cattive informazioni. Del resto, lo studio e l'analisi delle conseguenze mediatiche di una esposizione di un fatto sui mass media è alla base della deontologia giornalistica. Un esempio, in questo caso, è individuato nella Carta di Treviso (documento etico dei giornalisti italiani sulla tutela dei minorenni e nel loro trattamento nei media). La responsabilità del giornalista, per esempio, arriva ad essere superiore persino ai genitori stessi. Infatti, quando il giornalista percepisce che il minorenne potrebbe vedere lesa la sua tutela con una esposizione mediatica, nonostante il parere favorevole di uno dei genitori, ha tutto il diritto di “autocensurare” i riferimenti al minore stesso. Lo studio delle conseguenze è fondamentale anche per quanto riguarda le questioni legate alla migrazione. In questo caso un esempio lo si può fare con i beneficiari di protezione internazionale e ai danni che potrebbero avere, per esempio, per una intervista video. Il loro volto, riconoscibile, e le loro storie – magari critiche nei confronti dei regimi dei loro Paesi d'origine – potrebbero portare come conseguenze ritorsioni ai danni della famiglia che sono rimasti lì (ecco il perché della forte tutela di un altro documento deontologico, la Carta di Roma). In sintesi, quella del giornalista è assimilabile alla figura professionale dell'informatore-mediatore culturale. Il suo è un supporto essenziale alle tematiche di mediazione. Il giornalista può venire in aiuto a questo genere di professionisti, avviando, per esempio, un particolare progetto di comunicazione, per rispondere ad alcuni difetti comunicativi della società. E' per questo che dovrebbe avere una base formativa comune al mediatore composta da elementi di antropologia, sociologia, psicologia ed avere particolari conoscenze culturali legate anche ai diversi contesti educativi, sociali, giuridici. Il giornalista può sostenere le operazioni di comunicazione del mediatore culturale e fare da ponte facilitando la comunicazione attraverso i mass media. Inoltre, le sue particolari competenze potrebbero portare a scrivere testi per migranti in una lingua semplificata (plain language), per fare in modo che possa essere di facile comprensione.

Le tre T dell'informazione migrante

Alla luce del ruolo di mediatore culturale del giornalista è necessario analizzare il suo ruolo partendo da qualche consiglio che si basa, oltre che sullo studio della materia, anche sull'esperienza. Nel mondo del giornalismo migrante traspare in maniera particolarmente chiara come ci siano tre “T” da seguire per rispettare una buona comunicazione: Terminologia, Tutela e Testimonianza. Fa parte della vita di una lingua viva come l'italiano la sua modifica dei significati – e dei sensi – delle parole. Così è opportuno che il giornalista possa usare, nel racconto di una notizia, una particolare cura alla Terminologia (la prima T). Su questo la Carta di Roma ne è un esempio perché ha, nella sua appendice, un vero e proprio glossario che fa da guida per i giornalisti sui termini maggiormente rilevanti. La seconda T è di Tutela. Il perché è semplice e il riferimento da fare non è alla sola Carta di Roma ma anche a diversi altri testi della deontologia giornalistica italiana e internazionale (le regolamentazioni etiche sembrano avere quasi un fondamento comune per poi avere differenziazioni regionali, a seconda delle peculiari differenze culturali di ogni zona). Il cronista, infatti, deve tutelare la persona che ha di fronte: non è di certo un giudice e non sta a lui dire se sia colpevole o innocente di un fatto, ma deve immaginare gli eventuali risvolti che potrebbero essere la conseguenza della ribalta mediatica. Ciò avviene particolarmente per i minori, i disabili e per i migranti. Le fasce più deboli della popolazione, dunque, è giusto che nell'esposizione giornalistica vengano tutelati anche per gli effetti che potrebbero sortire (vale soprattutto per le interviste in tv, quelle a maggior presa tra il vasto pubblico). La terza T è quella di Testimonianza. Raccontare il mondo migrante senza sentirlo (senza viverlo) equivale a distorcere l'informazione. Così uno degli aspetti che traspare nei documenti deontologici è quello dell'ascolto e dello studio dei “perché”. Conoscere le cause dei movimenti migratori è alla base per spiegare al meglio, ai destinatari dei propri media, ciò che sta avvenendo magari sotto ai loro occhi (come nel caso degli sbarchi dei migranti sulle coste italiane). Inoltre, raccontare i fatti a partire dalle storie degli uomini rende umane le cronache (senza mai, ovviamente, banalizzarle o renderle strumenti di una comunicazione qualunquista, altrimenti avrebbe l'effetto contrario) e fa passare quegli eventi come somma di esperienze collettive che compongono storie condivise. La migrazione non è gioco di numeri ma insieme di storie.

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    Giornalista professionista, consulente per l'ufficio stampa della Congregazione generale delle Suore Missionarie di San Carlo Borromeo/Scalabriniane. Roma, Italia.

Publication Dates

  • Publication in this collection
    Jan-Apr 2016
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